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Non è questo che sognavo da bambina di Sara Canfailla e di Jolanda Di Virgilio

Nel loro esordio, Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio raccontano con leggerezza e autenticità che cosa significa diventare adulti oggi.

Dentro ci sono i fallimenti, le paure e le ambiguità di un momento di passaggio obbligatorio e doloroso, in cui i punti di riferimento crollano e bisogna costruirne di nuovi.

Neolaureata. Coinquilina. Fuorisede. Precaria.

Se dovesse descriversi, Ida lo farebbe così.

E da oggi aggiungerebbe alla lista: stagista. Stagista in una grande-e-importante-agenzia-di-comunicazione. Non è quello che sognava da bambina, ma tant’è: dopotutto, non è la prima volta che le cose non vanno nella direzione sperata.

Avrebbe voluto vivere ovunque tranne che a Milano, e vive a Milano. Voleva una relazione stabile, ed è stata lasciata. Ha studiato per diventare sceneggiatrice, e invece fa la social media manager.

Ogni mattina si trascina verso l’ufficio e, tra meeting, brainstorming e tante altre parole che finiscono in -ing, lì resta fino a sera, impegnata in un lavoro che non riesce a capire che lavoro sia, circondata da colleghi che sono simpatici e brillanti, sì, ma solo tra di loro.

Fino al giorno in cui, stanca di una vita che troppo spesso si riduce a essere un pendolo che oscilla tra un file Excel e la prossima sbronza, Ida capisce che, per sopravvivere, deve adattarsi, assomigliare più a loro – i suoi colleghi, il suo capo – e meno a sé stessa.

E mentre le ambizioni cambiano e il confine tra giusto e sbagliato si fa inconsistente, rincorrere i suoi sogni diventa un capriccio che non può più concedersi. È ora di crescere: ridimensionare le aspettative e accettare i compromessi. Così, quando le arriva la notizia di un concorso a cui candidare il suo cortometraggio, Ida non sa che fare.

Quasi non ricorda più cosa sognasse da bambina, chi volesse diventare. Ma non si può mai mentire del tutto a sé stessi. Almeno, non a quello che c’è in fondo alla propria anima.

L’unica cosa che rimane è un sogno.

Un sogno che anche quando resta chiuso in un cassetto, anche quando non riesce ad avere voce, può farsi sentire.

Ed è proprio sapere che è lì, in attesa per quando si sarà pronti a fargli spazio, che ci fa sentire vivi

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